Sandra
Fred mi pagò più di quanto mi aspettassi per fare compagnia a Karin, portarla in palestra e sbrigare mille commissioni. Forse si rendeva conto che ero troppo pressata perché a Karin piaceva molto uscire di casa e venire con me dappertutto e la sua lentezza nel camminare, nel salire e nello scendere dalla macchina finiva per darmi sui nervi. Però non arrivavo mai al limite perché Karin aveva uno spirito di osservazione portentoso e si accorgeva immediatamente quando mi stava infastidendo. Allora allentava la corda, mi lasciava i miei spazi e qualche fine settimana potevo anche andarmene di sotto, nell’altra casa, e respirare un po’. Non era male, risparmiavo quasi tutto quello che guadagnavo. Stavo comprando la mia libertà futura.
Usai una parte dei soldi che mi aveva dato Fred per comprare dei gomitoli di cotone color perla e dei ferri nuovi per iniziare il secondo golfino. Avrei conservato il primo per ricordo, perché mi era servito per sbagliare e imparare, ma mio figlio avrebbe indossato il secondo: questa volta sarei stata precisissima. Per il giro delle maniche avrei dovuto chiedere per forza aiuto a Karin, ma per il resto avrei fatto tutto da sola.
Per questo dopo pranzo, mentre Fred e Karin si preparavano per andare al funerale di un loro amico, nell’orario in cui di solito Karin faceva un pisolino sul divano con una coperta addosso e la televisione accesa - la televisione su di lei aveva un effetto soporifero -, tirai fuori il gomitolo e i ferri da una borsa di velluto a coste viola che mi aveva regalato lei e mi misi a sferruzzare lentamente finché, dopo più o meno un quarto d’ora, i pensieri iniziarono a uscirmi dalla testa come formiche da un formicaio. Venivano uno dopo l’altro, apparivano e scomparivano, tranne la questione dell’uniforme e il ritaglio di giornale che mi aveva dato Julián. Secondo lui erano nazisti, e questo in effetti spiegava la divisa da ufficiale delle ss che Fred indossava la sera della festa a casa di Alice. L’uniforme, quell’uniforme della taglia enorme di Fred, era stata noleggiata o era la sua? Se Julián aveva ragione, allora doveva essere da qualche parte in casa. Ma se accantonavo i suoi sospetti, potevo anche dirmi che la gente ha delle fantasie bizzarre, e quelle di Fred potevano non avere niente a che fare con ciò che l’uniforme significava. Paragonata a quella di chi si eccitava vestendosi da personaggio dei cartoni animati, la sua perversione poteva anche essere accettabile: magari era il suo modo per ravvivare il rapporto con Karin. Ma chi cercavo di prendere in giro? Con l’uniforme addosso, Fred era un nazista perfetto. Il problema era che non sapevo che aspetto dovesse avere un nazista in borghese, senza divisa. Da cosa si riconosceva? Sicuramente non si facevano riconoscere. Io non notavo niente di speciale.
In fin dei conti, cosa me ne importava? Ma sì, m’importava, o forse ero solo curiosa, non so. Fatto sta che lasciai i ferri nella borsa di velluto e mi avventurai per la casa. Fino a quel momento non avevo mai avuto la seria tentazione di curiosare. In un certo senso stavo tornando bambina, ai tempi in cui era un piacere aprire i cassetti e toccare tutto quello che c’era dentro senza che nessuno sapesse. Anche se adesso il piacere si mescolava ai sospetti.
La casa aveva due piani, uno scantinato, una serra, un solaio, un garage e, nella parte più alta, una mansarda senza scale e altri accessi. Una casa normale, insomma, anche se per loro due soli era oggettivamente troppo grande. Sparsi nelle varie stanze c’erano cassapanche e bauli antichi molto belli, dove d’estate venivano riposti i piumoni ingombranti e i tappeti, e degli armadi. Anch’io da vecchia, quando non avrei più potuto stare in giro tutto il giorno, avrei voluto una casa grande come quella per poter andare da una stanza all’altra senza annoiarmi. Karin saliva con grande difficoltà al piano di sopra, appoggiandosi all’elegante corrimano di mogano. Quando si erano trasferiti lì, lei certamente non aveva immaginato che sarebbe finita così. E magari il peggio doveva ancora venire. Perciò cercava di rimanere al piano di sotto fino a che non si faceva ora di andare a dormire: giù c’erano sempre più ammennicoli suoi che sarebbero dovuti stare al piano di sopra, ma che lei lasciava lì per non dover andare a cercarli o mandare me a prenderli. Le dissi che per evitare di avere tutto in giro, scarpe, vestiti, maglioni, giacche, avremmo potuto metterli in un baule nello studio-biblioteca, ma mi rispose di non pensarci nemmeno, perché in quella stanza poteva entrare solo Fred. Lui era gelosissimo dell’ordine che dava alle sue carte e ai libri, e se qualcuno gli toccava le sue cose andava fuori di sé. Per questo quella porta rimaneva sempre chiusa a chiave, perché nessuno ci entrasse per sbaglio e per evitare sfuriate da parte di Fred. A dire il vero, quando qualcuno dei loro conoscenti - Martín, l’Anguilla o Otto - veniva a trovarli e doveva aspettarli, gli veniva concesso di stare lì da solo, ma pensandoci bene mi ero detta che non era affar mio ed ero stata zitta. Era evidente che quella porta doveva stare chiusa solo per me.
Salii nelle camere facendo meno rumore possibile, anche se in casa non c’era nessuno a parte me. Si sentiva solo il ticchettio di un antico orologio di porcellana, che doveva valere moltissimo, e normalmente si sarebbe sentito anche il russare di Karin. Di solito dormiva tre quarti d’ora russando a tutto spiano. Le porte non venivano oliate da secoli e cigolavano tutte. Secondo Karin servivano da allarme nel caso in cui qualcuno si fosse introdotto in casa. Anche le ante dell’armadio cigolavano. Le aprii e rimasi di stucco davanti agli splendidi abiti da sera di Karin. Non c’era solo quello bianco che indossava la sera della festa di Alice. Erano almeno cento, sistemati in fodere di tela. Dovevano costare una barca di soldi. Riuscii a vederne solo qualcuno alzando le fodere, e non del tutto. Nella parete dell’armadio c’era una cassaforte dove certamente custodivano i gioielli, perché con vestiti del genere bisognava portare monili altrettanto preziosi. Poi aprii la parte dell’armadio di Fred. Era ancora più ordinata di quella di Karin. Lì le fodere erano trasparenti, e dentro non c’era nessuna uniforme. Per un attimo rimasi ipnotizzata dalla disposizione perfetta delle cravatte, dei fazzoletti e dei calzini. Chiusi l’armadio e spiai nel baule laccato che si trovava ai piedi del letto e, proprio come avevo immaginato, dentro c’era un piumone. Uscii e richiusi la porta con la sensazione che le mie impronte fossero dappertutto: una considerazione assurda dettata da un timore infondato.
Entrai anche nella stanza degli ospiti e frugai nei cassetti del comò e nell’armadio. Poi feci una capatina nelle altre tre stanze. Erano molti i posti in cui avrebbero potuto riporre l’uniforme nazista, ma era anche possibile che l’avessero noleggiata e l’avessero già restituita. Non mi resi conto di quanto tempo avevo passato ad andare da una parte all’altra, aprendo e chiudendo armadi, finché non sentii il cancello che si apriva e la falcata di Fred che saliva su per le scale.
Gli chiesi del funerale e lui mi domandò se ci fosse stata qualche novità durante la sua assenza. Gli risposi di no ed ebbi l’impressione che volesse sapere che cosa facevo lassù, così gli dissi che mi ero stesa sul letto per fare un riposino e che adesso mi sentivo un po’ intontita: sarei andata a fare un giro in motorino per svegliarmi.
Scesi in paese e arrivai fino all’albergo di Julián. Ricordavo che mi aveva detto di non andarci, ma non prendevo mai sul serio quel genere di raccomandazioni, mi sembravano esagerate. Così parcheggiai un attimo, gli scrissi un biglietto dicendogli che lo aspettavo il giorno dopo alle quattro al Faro, entrai nella hall, feci finta di leggiucchiare un giornale, sgattaiolai fino agli ascensori, arrivai davanti alla sua stanza e gli infilai il biglietto sotto la porta. Uscii come ero entrata, cercando di non farmi notare da nessuno, ma non sapevo se ci ero riuscita.